Benché molti studiosi attribuiscano a Ficarolo origini antichissime, risalenti al periodo romano, il Ravelli ne fa iniziare la storia col X secolo, periodo in cui la documentazione riguardante il paese risulta assolutamente certa,attraverso un documento del 936, con il quale Bonifacio, secondo conte di Bologna, e Ingelberto, abate di Nonantola, attuavano una permuta di beni, tra cui anche Ficarolo (“pago Figariole”), all’epoca appartenente al contado di Ferrara e situato, con Settepolesini, alla sinistra del Po.
Nel 970 si ricorda Ficarolo come castello e ben presto il paese assumeva un ruolo di notevole importanza: che fosse già da tempo o divenisse in seguito sede di pieve, assorbì quasi subito parte della circoscrizione plebana di Santa Maria di Trenta. Che tale assorbimento, per quanto parziale, fosse in atto nel X secolo, lo dimostra il Regestum bonorum della chiesa ravennate: il fundus Publica, appartenente alla chiesa di Santo Stefano di Galito/Galigo, cui apparteneva anche il fundus Bonolitico, confina ai lati opposti con il territorio delle pievi di Santa Maria di Ficarolo e di San Donato in Pedrurio; questa confinazione si ripete in un atto del XIII secolo che si riferisce a concessioni di enfiteusi della prima metà dell’XI secolo. Poiché la pieve di Santo Stefano era situata presso Stienta, quindi a sud-est di Trenta, il fatto che il suo territorio confinasse con le altre due pievi sta a significare che la pieve di Trenta, non arrivava allora così a Sud.
La zona a est di Ficarolo, a nord e a sud dell’odierno corso del Po, faceva capo nel X secolo alla pieve di Santa Maria di Trenta. Anche dopo la sua scomparsa, della pieve restava ricordo nel XIII secolo, così che un fundus Cento, in un atto di rinnovo di una vecchia enfiteusi, è posto nella sua circoscrizione. Altri fundi ancora, quelli di Arveto, Septempolesinos, sono collocati nella pieve di Santa Maria di Settepolesini, mentre anticamente anch’essi appartenevano a Trenta.
Il consolidarsi della presenza ferrarese e canossiana verso il Tartaro, porterà in un periodo di tempo abbastanza breve alla costituzione del centro polesano di Trecenta, così come fra IX e X secolo la presenza ravennate aveva portato alla costituzione o all’ampliamento di quello di Ficarolo, che aveva “tagliato” il territorio della pieve di Trenta.
Il nostro paese rivestiva infatti funzioni importanti: castello in posizione privilegiata per controllare la via d’acqua del Po, centro di giurisdizione civile ed ecclesiastica, diviene inoltre punto di riferimento geografico per la dislocazione di beni in località vicine; nel 988, ad esempio, il fundus di Trecenta, pur appartenendo alla circoscrizione plebana di Santa Maria in Trenta, viene indicato come posto a nord (subto) di Ficarolo.
Con l’affermarsi del dominio dei Canossa, cresce l’importanza dei centri fin qui citati: così a sud i Canossa, conti di Ferrara con Tedaldo, si impadroniscono del castello di Ficarolo, che, almeno dal 1077, sembra essere posto sotto la giurisdizione di Matilde. Qui la contessa edificherà la chiesa di San Benedetto, donata all’omonimo monastero di Polirone; a Ficarolo, inoltre, possedevano beni famiglie ferraresi a lei legate: la moglie e il figlio di Sichelmo, fratello del vescovo Landolfo, eressero prima del 1112, su beni allodiali, la chiesa di San Salvatore.
La penetrazione canossiana nei nostri territori avviene attraverso il possesso di grosse proprietà legate alle vicende di alcune famiglie, che “scrivono” così la storia di questi luoghi, e appunto anche di Ficarolo.
Nel 1027, infatti, tale Cono, della famiglia de Ganaceto, figlio di Achenolfo, alemanno, residente in Trecenta, dona, per il bene della sua anima e di quella della moglie, diversi beni al monastero modenese di San Pietro: queste proprietà si trovano, anche se in quantità non precisata (i documenti scrivono “res”) in Trecenta e in Ficarolo, oltre ad altri in Minerbe, nel veronese, e nel modenese, ma non costituivano comunque tutto il patrimonio della famiglia Ganaceto nella regione, avendo essi ricevuto beni in enfiteusi anche dalla chiesa ravennate.
La loro presenza nella Transpadana ferrarese potrebbe essere spiegata con un’attività legata al servizio dei Canossa, ed è probabile che, anche dopo la scomparsa di Matilde, i Ganaceto abbiano continuato per un certo periodo a partecipare alle vicende politiche ferraresi, intervenendo nelle contese fra Ferrara e Ravenna e forse favorendo quest’ultima.
Ma la supremazia dei Ferraresi, dovuta all’abilità del vescovo Landolfo e del suo successore Grifo, unitamente all’appoggio delle più rilevanti famiglie cittadine e alla progressiva importanza del comune stesso, che andava assumendo forme di iniziativa autonoma sempre più significative, convinceva forse i Ganaceto a ritenere più opportuno lasciare gli impegni ferraresi e occuparsi delle vicende politiche della loro patria, Modena. Per questo motivo, parte dei beni della famiglia e tutti quelli passati alla chiesa di San Giorgio in Ganaceto, vennero venduti al vescovo di Ferrara.
A questo proposito va rilevato che la maggior affermazione dell’episcopio ferrarese avvenne a nord e a nord-ovest, fra il Po e il Tartaro, sempre contrastata, però dall’espansione patrimoniale e giurisdizionale della chiesa ravennate, che aveva i suoi centri in Ficarolo e nella pieve di Santa Maria in Trenta, e poi, come abbiamo visto, dai Canossa e dalle famiglie ed enti ecclesiastici a loro legati nei luoghi fra Trecenta e Ficarolo.
Risulta così evidente che i Canossa perseguivano una politica di acquisizione, a qualsiasi titolo, di proprietà e giurisdizioni in questo territorio, con l’evidente intento di controllare le principali vie d’acqua della pianura padana centro-orientale; essi ebbero notevole influenza non solo sull’organizzazione territoriale, ma anche socialmente ed economicamente, operando trasformazioni nel tessuto della società rurale. Sappiamo, infatti, attraverso gli studi del Tabacco, come la diffusione del termine arimannus sia strettamente legata alla loro affermazione nei nostri territori, indicando gli uomini rustici liberi in “possesso di terra non soggetta a dominio signorile”. Il Liber censuum della chiesa romana indica in modo molto dettagliato le arimannie di influenza canossiana: fra queste, anche Ficarolo e i paesi vicini. Ficarolo, però, era considerato bene personale di Matilde, e tale resterà fino alla metà del XII secolo, quando i territori passarono all’episcopio ferrarese, nonostante i ripetuti tentativi della chiesa romana di ripristinare la propria autorità nella zona.
La morte di Matilde apre, infatti, un lungo periodo di contese riguardanti questi territori, che videro coinvolti chiesa, impero e signorie locali. Fra i vari interventi per dirimere le questioni patrimoniali è da segnalare una bolla di Celestino III a Pietro, preposito della chiesa di San Giorgio di Ganaceto (Modena) in data 25 aprile 1195, con la quale viene confermata la protezione apostolica per i beni “iuste ed canonice” posseduti in vari luoghi, fra cui “in Episcopatu ferrariensi possessione quas habetis in Comituatu Ficaroli et in Sadriano et in curtibus Manegii et Trecentae”.
Ma la pressione ferrarese non consentiva, anche per le ingerenze dello stesso Vescovo, la difesa dei privilegi conquistati, per cui la necessità degli arimanni e dei proprietari di cedere ad alcuni compromessi, in cambio di una relativa autonomia. Nel 1214 Manfredino, preposito della chiesa di San Giorgio di Ganaceto, procuratore e sindaco “ad faciendum vendicionem totius poderis ipsi ecclesie pertinentis ab isto latere Padi” (sulla sinistra del Po di Ferrara),vendeva al vescovo Rolando “in perpetuo iure proprio, cum omni iure et actione, hoc totum quod nobis nostreque ecclesie de Ganacedo pertinet vel pertinuit, ac iuste pertinere debe ab isto latere Padi”: vennero così ceduti casali e terre posti “in curie Trecente” Sadriano e Ficarolo, vincolando in tal modo i proprietari sia all’episcopio che al comune di Ferrara. Gli anni a venire vedevano rafforzarsi il potere degli Estensi, tanto che gli uomini di Trecenta chiedono a Uguccione Contrari, investito iure feudi nel 1401 dal cugino Nicolò III d’Este, la difesa del proprio patrimonio comunale: ricusavano il concorso nel pagamento del salario del capitano e del precone di Ficarolo, così come dei lavori di arginatura fuori del paese stesso.
Proprio con riferimento a questi lavori, serve riprendere il discorso della rotta del Po a Ficarolo, avvenuta molto probabilmente nel 1152, data che il Muratori ritiene fra le più certe: in questa circostanza una parte delle acque, trovato l’alveo del Tartaro, andò a foce presso Loreo; l’altra parte diede origine al corso d’acqua più settentrionale del Po, detto poi Po di Maestra o di Venezia, che sfociava in Adriatico con tre rami, Po della Pila, Po delle Tolle e Po della Gnocca.
Il settentrionale sembra essere dunque il corso più recente; il Po di Primaro, fra Ferrara e Ravenna, il più antico, continuazione del Po originario.
Il Po di Maestra o di Venezia, per attraversare il quale, già dopo la rotta, si doveva pagare un dazio, modificò presto la situazione dei traffici delle merci; Venezia infatti scelse questa via come la più vicina e la più breve, che le consentiva di non passare per Ferrara e di evitarne i controlli sui suoi commerci in Lombardia. Per questo motivo darà luogo anche a una serie di contenziosi ogni qualvolta gli Estensi ostacoleranno la libertà di navigazione della Serenissima, libertà che farà rispettare con la forza o con il blocco navale alle foci del Po. Le ripetute schermaglie si concludevano con la guerra fra Ferrara e Venezia del 1308; il conflitto, benché disastroso per la Repubblica, riconfermò che tutte le merci che giungevano a Ferrara per l’Adriatico dovevano transitare per Venezia.
La sconfitta peggiorò le relazioni fra i due Stati e divenne conflitto aperto alla morte di Borso d’Este, cui succedette Ercole nel 1471.
Il nuovo signore, intendendo sottrarsi alle pressioni fiscali veneziane, revocava certe esenzioni di cui beneficiavano i cittadini veneziani residenti a Ferrara, evitando inoltre di ostacolare il continuo contrabbando del sale; intanto le condizioni politiche erano mutate: a Venezia si preparava, in accordo con la Santa Sede, una lega contro Ludovico il Moro e il duca di Ferrara, da tempo alleati, cui partecipavano anche Genova, Rimini, Parma e il signore del Monferrato.
Venezia, per proprio conto, si armava per la guerra agli Estensi, costruendo nel Polesine di Rovigo presso il confine ferrarese, due bastie e collocando anche sull’Adige ingenti nuclei militari.
Gli Estensi non erano da meno, fortificando soprattutto Ficarolo, da cui si dominava la biforcazione del Po; temevano infatti il blocco dei rifornimenti di vettovaglie.
Tra i due contendenti continuavano scambi di missive per addivenire a una soluzione che sembrava sempre più complicata e irraggiungibile. Intanto, nel febbraio 1482, gli alleati del Moro e dell’Estense si riunivano a Cremona per decidere o meno l’inizio delle ostilità contro Venezia, al fine di impedirle di acquisire il Ferrarese e dunque il dominio delle acque del Po e del commercio della valle padana; accordatisi sulla necessità di un intervento, elessero lor capitano generale Federico di Monteletro, duca di Urbino, mentre la Serenissima designava a questo compito Roberto da Sanseverino, che invadeva Ficarolo con ben 30 mila uomini, conquistandone la rocca. Il dispendio di uomini e forze sicuramente facilitò l’impresa ma, scrive Vittor Sandi, storico della Repubblica, “riuscì infelice l’acquisto, poiché la infezione di quell’aere fece perir quasi tutto l’esercito”.
A che tipo di “infezione” così grave da causare tante vittime tra i Veneziani, si riferisce il Sandi? Forse l’unica ipotesi possibile è che nelle zone attorno a Ficarolo esistesse la malaria, ma neppure il Soranzo, che nel suo studio riferisce con molta puntualità le vicende di quel periodo, fa cenno a questo problema, citando invece tra i motivi che indussero i contendenti a trattare la pace, le perdite umane da entrambe le parti e “la carestia e la peste che qua e là si faceva sentire”.
Così il 7 agosto 1484 con la pace di Bagnolo, Venezia finalmente acquistava Rovigo e il Polesine, ma non Adria e alcune località vicine, recuperando in Lombardia le terre perdute e asola, restituendo al re di Napoli le città di Puglia, occupate durante il conflitto e riconsegnando al duca di Ferrara il dominio estense sulla destra del Po, non senza prima aver demolito il bastione di Pontelagoscuro.
Pagina aggiornata il 15/10/2024