Vicende storiche religiose

Vicende storiche religiose

Nel contesto dell’affermato dominio canossiano su Ficarolo, si deve porre la fondazione del monastero e ospedale di San Salvatore. Correva l’anno 1112 quando importanti membri della famiglia capitaneale e matildica del vescovo di Ferrara Landolfo (la cognata Imiza e il nipote Casotto) istituivano nel territorio di Ficarolo un complesso monastico, con annesso ospedale per l’alloggio di viandanti e bisognosi. L’amministrazione del monastero veniva affidata ai canonici regolari agostiniani di San Frediano di Lucca: attribuzione che da un lato rimanda alla politica espansiva di casa Canossa (Lucca ricade infatti sotto il dominio del Marchesato di Toscana), dall’altro spiega la sensibilità ospedaliera del monastero. I chierici di Sant’Agostino, infatti, oltre ad attendere al ministero pastorale con l’obbligo dell’ufficiatura corale, sviluppano ben presto la pratica della beneficenza a favore dei poveri e dei pellegrini, erigendo, fuori del recinto di clausura, un locale chiamato hospitium o hospitale; a un canonico, chiamato magister hospitii, veniva affidata la cura dei ricoverati. Di questa eminente pietas e hospitalitas fanno esplicita menzione i vescovi ferraresi Amato e Presbiterino, che nel 1158 e nel 1175, attribuiscono a San Salvatore numerosissimi benefici, evidentemente anche per dare una base patrimoniale all’attività benefica del pio luogo.
L’istituzione di un’importante struttura ospedaliera (certamente nell’ambito delle attività caritative e assistenziali, e non sanitarie, tipiche degli ospizi medioevali) conferma come Ficarolo fosse un importante crocevia per l’approdo a Ferrara da nord-ovest: si era infatti soliti, nel Medioevo fino alle soglie dell’Età moderna, fondare ospizi per viandanti proprio nei punti cruciali per le comunicazioni, lungo le principali direttrici e alle porte delle città. Il monastero di San Salvatore doveva assumere, nel corso del XII secolo, un’importanza crescente: alle sue dipendenze infatti veniva posto l’ospedale ferrarese di San Siro in Mizzana, pure attribuito ai canonici di San Frediano dal vescovo Grifo nel 1144, e nel 1183 Ambrogio, canonico di San Salvatore, è testimone, a fianco di Guido da Ferrara, di un atto riguardante l’ospedale di San Giacomo di Monselice, istituto che, per più aspetti, sembra legato all’attività ospedaliera della diocesi di Ferrara.
L’attività del monastero di San Salvatore, almeno da un punto di vista giuridico, prosegue per tutto il XV secolo. L’index del padre Girolamo Arcari, cellerario di San Benedetto in Ferrara, riporta moltissimi documenti relativi a Ficarolo, Caselle e Salara, nei quali il prior di San Salvatore risulta tra le parti in causa. Alcuni diplomi papali citati dall’Arcari attribuiscono beni, privilegi e diritti al monastero agostiniano, confermando più volte la “concessionem villae Sallariae”, come, ad esempio, nel diploma del 31 marzo 1188 di Clemente III a favore del priore di San Salvatore Girolamo. Un diploma di Alessandro IV del 27 novembre 1255 ricorda per la prima volta, oltre a Salara, anche San Lorenzo di Caselle, come pertinenza dei canonici di San Frediano. In seguito i due istituti, San Salvatore e la canonica di San Lorenzo di Caselle, sono sempre più di frequente nominati insieme, come un’unica entità giuridica. A metà del Quattrocento sembra che la canonica di San Lorenzo, in qualche modo, assorba il monastero di San Salvatore. Così, nel 1444 Gregorius de Bonicis risulta priore di San Salvatore e di San Lorenzo di Caselle, nel 1450 lo stesso Gregorio è detto “prior S. Laurentii de Casellis alias S. Salvatoris de Figarolo” e nel 1472 “prior apostolicus Casellarum ordinis S. Fridiani de Luca”.
Nulla di strano che il beato Giovanni Tavelli, vescovo di Ferrara, non citi nella sua visita pastorale del 1434 il monastero di San Salvatore: l’istituto religioso, infatti, non era sottoposto in alcun modo alla giurisdizione del vescovo ferrarese. Per la verità dovevano esserci stati assai per tempo tentativi di ingerenza da parte del vescovo di Ferrara negli affari di San Salvatore, se nel 1292 un’autorevole delegazione, composta dai vescovi di Imola e di Padova e dal priore di San Michele presso Bologna, difendeva dinanzi a papa Niccolò IV i diritti del priore di San Frediano contro le ingerenze del vescovo di Ferrara, “volentem visitare ecclesiam S. Salvatoris de Ficarolo et SS. Syri et Marci Ferrariae”. È comunque fuori di dubbio che, dalla metà del XIV secolo in avanti, San Salvatore perda progressivamente di importanza, come accade per molte istituzioni simili, anche in relazione al maggior impegno sociale e assistenziale svolto dalle comunità laiche.
La visita pastorale che il beato Tavelli svolge a Ficarolo nel 1434 segnala infatti un ospizio di fondazione comunale, l’ospedale di Santa Maria, “fondatum per Commune et homines dictae villae Ficaroli”. La situazione dell’ospizio, confrontata con quella di altri istituti simili, non è drammatica: l’inventario, meticolosamente redatto dal notaio che segue il vescovo, segnala dieci materassi vecchi e rotti, quattro lenzuola, due coperte, un mantello, quattordici letti, quattro botti da vino, un contenitore per il grano, un secchio di ferro per l’acqua, un vecchio paiolo (“parolum antiquum”) e poco altro; i beni immobili ammontano a quattro pezze di terra. In migliore situazione si presenta l’ospizio al vescovo Francesco Dal Legname, in visita nel 1449: si ritrovano tutti i beni censiti nel 1434 e nel 1440 e, in più, tre materassi di penna, quattro lenzuola nuove, tre mantelli e qualche ornamento per l’altare. Nel Promemoria per le visite nel Polesine del 1434, il beato Tavelli annota di avvertire per tempo del proprio arrivo il parroco di Ficarolo, perché possa preparare l’occorrente per la visita pastorale; ma giunto nella “ecclesia plebalis” di Sant’Antonino, il vescovo trova, al posto del titolare della parrocchia, un tale don Benassa da Ferrara. L’obbligo della residenza, in effetti, non sembra molto osservato anche in altre parrocchie delle diocesi ferrarese, e per lo più a tale obbligo tanto il beato Tavelli quanto il vescovo Dal Legname sembrano richiamare molto blandamente: tant’è che la situazione di Ficarolo viene in qualche modo sanata nel 1444 per mezzo di un contratto di affitto, con il quale il titolare don Nicola Beccari cede la parrocchia di Sant’Antonino in affitto per cinque anni a un tale Petrus Frambaia. Il parroco affittuario era tenuto personaliter a officiare nella chiesa e a soddisfare tutti gli obblighi derivanti dalla cura d’anime. È strano che un vescovo rifromatore come il Tavelli, per di più reduce dai fermenti del concilio di Basilea, autorizzasse in pratica l’affitto di chiese plebane, tanto più che in alcuni sinodi, come quello lucchese, era esplicita la proibizione “de non locando aliquam ecclesiam”. Probabilmente, nel caso di Ficarolo, l’affitto era almeno un modo per ovviare alla nefasta pratica dell’abbandono della residenza da parte dei rettori delle chiese, che, al più, si facevano vivi solo per riscuotere i benefici loro spettanti.
L’impressione che si ricava dai meticolosi verbali della visita pastorale del 1434 è di una comunità abbandonata a se stessa: si tratta probabilmente di un esempio interessante della più vasta situazione di crisi a cui sono soggette le parrocchie rurali nel XV secolo.
La chiesa plebale di Ficarolo gode di un capitolo formato da quattro canonicati, i cui beni sono puntigliosamente censiti dal beato Tavelli. Scopo del capitolo canonicale in una chiesa plebale (ovviamente diverso, per quanto analogo, da quello del capitolo della cattedrale) era di assistere e di rendere più solenne il culto divino nella chiesa di erezione, per mezzo di sacerdoti, detti appunto canonici, tenuti in origine alla vita comune, e quindi alla residenza presso la chiesa a cui il capitolo era attribuito. Alle necessità dei canonici si sovveniva grazie ai proventi di benefici, gestiti originariamente in comune (mensa canonicaoruma), ma ben presto ripartiti in varie quote fra i vari canonicati (praebendae); anche l’obbligo della vita in comune venne di conseguenza meno, e a ogni canonico fu attribuita un’abitazione separata (mansio). Inoltre la pratica del cumulo dei benefici rendeva pressoché impossibile la residenza dei canonici nelle chiese di pertinenza: la proibizione di cumulare più di un beneficio ecclesiastico, ribadita dalle Costitutiones della chiesa ferrarese del 1332, sembra ormai lettera morta.
E così al beato Tavelli non resta che prendere atto di quanto affermato dal nostro don Benassa, e cioè che i canonici (nessuno dei quali è naturalmente presente al momento della visitatio) in parrocchia non si son mai fatti vedere: si fanno vivi, o meglio mandano loro delegati, solamente al momento di riscuotere le loro prebende (“tantum veniunt seu mittunt pro suis recoletibus dictorum canonicatuum”): “il fatto è – nota Enrico Peverada – che non veniva certamente vista di buon occhio dai fedeli l’apparizione di questi beneficiari al momento del raccolto o della riscossione delle decime”.
La situazione personale di don Benassa, a cui spettano – com’è solito per i cappellani di parroci non residenti – tutti gli obblighi relativi alla cura d’anime, sembra per di più alquanto traballante: il cappellano ha un figlio sposato, Andrea, che vive con la sua famiglia nella casa parrocchiale. Anche se don Benassa non sembra risultare, almeno al momento della visita pastorale, concubinarius, la convivenza con figlioli nella casa parrocchiale contravviene tuttavia a un’esplicita proibizione sinodale. Il vescovo taglia corto: entro otto giorni il cappellano si presenti a Ferrara, al suo cospetto, e lì si deciderà se don Benassa potrà continuare a tenersi in casa il figlio o meno.
Se la dilazione concessa al cappellano perché sistemi i propri problemi familiari ben si inquadra nello spirito caritatevole e comprensivo del beato Tavelli, ugualmente la severità del vescovo riformatore nei confronti delle ben più gravi negligenze del titolare assente rivela la preoccupazione di richiamare ai propri doveri quanti godevano dei benefici ecclesiastici. E così manda a dire al rettore che entro il prossimo giugno (la visita si svolge il 18 aprile) egli dovrà far riparare il tetto della chiesa e degli edifici adiacenti; gli impone anche di restituire alla parrocchia il breviario che un precedente parroco, don Simone, aveva lasciato in eredità. Al povero don Benassa, invece, ordina solo di sistemare un calice, che ha il piede traballante, e di imparare a memoria la formula dell’assoluzione, indispensabile per amministrare bene il sacramento della penitenza: problema questo fondamentale nella riforma della chiesa quattrocentesca non solo ferrarese. Il parroco invece dovrà, evidentemente a proprie spese, far copiare un manuale per la confessione, probabilmente la Formula confessionis del carmelitano fra Michele, una copia del quale è reperibile a Ferrara presso la dimora del vescovo: il libro, così copiato (giova ricordare che la stampa non era ancora stata inventata), dovrà essere lasciato in parrocchia “affinché i sacerdoti che lì risiedono abbiano uno strumento per poter provvedere efficacemente alla salute delle anime”.
Nella visita pastorale di Francesco Dal Legname (1 maggio 1449) emergono due elementi particolarmente interessanti rispetto ai verbali del Tavelli: il numero degli abitanti della parrocchia e il ruolo dei laici nella vita della comunità.
Questa volta è presente il parroco, “Nicolaus quondam Simonis Leporis de Flandra”, affiancato dal cappellano, Iohannes de Fivicana” della diocesi di Luni (La Spezia). Da notare che la presenza, abbastanza comune, di rettori stranieri (un fiammingo nel nostro caso) si può almeno in parte spiegare con la fama che, nel XV secolo, l’università di Ferrara aveva acquisito in ambito europeo: studenti ecclesiastici, magari mantenuti da qualche beneficio, non dovevano essere certo rari nella Ferrara quattrocentesca.
Sullo stato della parrocchia, alle domande del vescovo, risponde il cappellano, evidentemente più informato della situazione di quanto dovesse essere il parroco fiammingo. La parrocchia conta 887 anime da comunione, di cui 24 non confessate e moltissime (“plurimi”) non comunicate. Considerando che alle 887 anime censite vanno aggiunti i ragazzi con meno di 14 anni, per i quali non sussiste l’obbligo del precetto pasquale, Ficarolo sembra la comunità della Transpadana ferrarese con maggior numero di abitanti: i verbali delle visitationes degli anni 1147-1450 segnalano 500 anime a Bergantino, 150/200 a Canaro, 500 a Castelmassa, 500 a Ceneselli, 175 a Fiesso e Tessarolo, 160 a Gurzone, 200 a Salara, 432 a Trecenta. Anche la rendita della parrocchia sembra cospicua: circa 100 ducati d’oro annui.
Ma il dato più interessante della visita di Francesco Dal Legname è forse l’affermata partecipazione e la riconosciuta responsabilità dei laici nella vita della comunità. Oltre ai testimoni laici interrogati dal vescovo anche per quanto riguarda il comportamento dei sacerdoti (esemplare il caso di Sariano, in cui i laici sono invitati dal vescovo a vigilare, perché il prete, allontanandosi, non asporti i beni della chiesa), ormai fondamentale nella vita della parrocchia risultano i massari, a cui spetta la cura degli interessi materiali della chiesa e, in qualche modo, della comunità.
A Ficarolo ad esempio il vescovo, avvertito dell’urgenza, incarica i massari di fare quanto è necessario per sistemare l’argine del Po, che minaccia rovina.
Nel complesso, alla vigilia della guerra con Venezia, particolarmente drammatica, come si è visto, per Ficarolo, la comunità di Sant’Antonino sembra unita e concorde: i testimoni laici, interrogati dal vescovo, sembrano soddisfatti dei loro preti, e, a eccezione di qualche bega familiare, anche dei loro compaesani (“de parochianis dixit nichil scire mali”).

Pagina aggiornata il 15/10/2024

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